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Produrre arte implica una pulsione ad agire, un’intenzionalità incarnata. Ma l’arte non è possibile senza un’esperienza umana intersoggettiva, perché è sempre un dono fatto a qualcun altro, a una persona non specifica bensì generica a cui viene chiesto di leggere, ascoltare o guardare.
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Quando ci accostiamo ad un’opera d’arte, non solo diventiamo testimoni dei risultati del gioco intenzionale di un’altra persona nella sua sfera immaginativa, ma siamo anche liberi di giocare a nostra volta e di riflettere, sognare, indagare e teorizzare.
(Siri Hustvedt)
C’era una volta l’arte “impegnata” o meglio l’impegno nell’arte. Remote sono ormai le stagioni in cui si poteva ritagliare, nelle mille impazienti contingenze della politica e della cultura, qualche momento per dividersi o ritrovarsi intorno al contributo di una qualsiasi opera creativa alle istanze sociali più stringenti.
Dietro l’angolo, il rischio della retorica, della propaganda o peggio ancora del messaggio pedagogico, naturalmente “rivoluzionario”.
Così l’arte per l’arte, gradualmente ha saputo recuperare terreno e farsi valere, specie quando qualità e originalità non sono venute meno.
Dietro l’angolo, il trionfo della logica mercantile, travolgente e dominante, poco incline a sottigliezze dialogiche e più sensibile alle superficiali provocazioni o a nuovi decorativismi.
Sandra Moss e Giordano Montorsi, nel loro sodalizio umano e creativo, fuori da queste antiche alternative, da tempo ormai ci hanno abituato a frequentare un’altra dimensione della ricerca artistica, nella quale il concetto cerca di non forzare mai la forma, e, nei momenti più riusciti, la forma si fa immediatamente concetto. Così il dono dell’artista si trasforma spontaneamente in un invito al testimone, anche quello più occasionale.
Mi sembra proprio il caso della loro ultima fatica, la nuova installazione di Art Point 18 a Reggio Emilia. Al centro, due circonferenze punteggiate da una serie di pistole e mitragliette di plastica, sorrette da agili morsetti, quelli dei giochi più infantili. Sullo sfondo, un cumulo di scarpe annerite dal tempo, esposte in ordine disordinato in duplice-triplice fila: un immediato, drammatico, richiamo visivo agli scarti delle tante persone smarrite nei lager di ogni persecuzione del Novecento. Con sarcastica evidenza, fa bella mostra di sé, emergendo dalle due circonferenze, una singolare Coppa del mondo, fatta di poveri resti di tante coppe, al di sotto di una terra-simulacro di un piccolo pianeta, che non sembra più neppure il nostro, un semplice punto, di cui lontani osservatori del cosmo potrebbero in nulla curarsi.
Il gioco delle interpretazioni può apparire fin troppo facile in quella che appare una sorta di beffarda riflessione intorno al diffondersi dei conflitti, nelle sue inedite forme, in un tempo in cui le immagini luminose delle imprese sportive si inseguono e si sovrappongono di continuo con quelle dei più indicibili orrori.
Ma più di ogni lettura, che può certo anche rimandare alle tante voci di chi si è misurato in ogni tempo con i disastri della guerra, sembra prendere consistenza, al solo sostare sul ciglio della strada, davanti ad un’opera che volutamente vuole parlare immediatamente ad ogni passante occasionale, il fardello di quell’interrogativo così esplicito nel titolo.
Come a recuperare lo spirito autentico di ogni vero gesto artistico. Quello della interrogazione. |