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Via S. Pietro Martire 18,
Reggio Emilia, Italia

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Lorenzo Capitani 
Insegnante


Reggio Emilia,
2-01-2012

 

Gli “ossi di seppia” di Giordano Montorsi 


A proposito di
Still life souvenir di vita silente
di
Giordano Montorsi


ArtPoint 18, via S. Pietro Martire, Reggio Emilia
dicembre 2011

 

 
 

Accetto il tempo che mi è toccato, sembra dirci Giordano Montorsi con il suo ultimo lavoro, quasi richiamando le celebri parole di Eugenio Montale a proposito della propria ricerca poetica.

La sola ricetta possibile di fronte alla tristizia del mondo?
“Vivere il proprio tempo restando sull’allarme”: è l’avvertenza di un artista che, nel suo radicale pessimismo, non cessa di prospettare alla poesia una sua specifica funzione.

Così, se vi capita di passare, nel cuore di Reggio, davanti ad ArtPoint, quell’originalissimo “avanluogo” d’arte contemporanea, una semplice vetrina in cui periodicamente vengono esposte nuove opere e nuove installazioni, visibili alla gente che passa, dall’esterno, 24 ore su 24, forse le parole di Montale, da un altro luogo e da un altro tempo della creatività, potrebbero risultarvi assai prossime.

Di cosa si tratta? Descrivere è sempre un po’ tradire, come tradurre, come spiegare.
Qui sia sufficiente richiamare l’idea di fondo di una opera-installazione, che a me pare formalmente classica e straordinariamente suggestiva nel suo contenuto ideale, se pure vogliamo ancora distinguere un po’ meccanicamente questi due aspetti di un’azione artistica estremamente compatta nel suo proporsi, come del resto in tutti gli ultimi lavori di Giordano Montorsi.

Il titolo dell’opera, Still life souvenir di vita silente, ci trasporta in una dimensione evocativa, il cui tono lirico è subito come smentito dall’immagine “forte”, rappresentata dall’ insieme della installazione.
Nove teche con fondo nero, sotto vetro, sono disposte su una superficie rettangolare  di circa tre metri per due. La luce, diffusa dall’alto, segnala gli oggetti disposti all’interno delle teche, semplicemente appoggiati in modo casuale. Ad uno sguardo più attento, questi oggetti, “sabbiati” con una stessa patina di color grigio scuro, si rivelano come dei reperti di antichi strumenti di lavoro. Chiodi storti, un gancio, un martello, un aratro spezzato… Quasi al centro, si eleva un parallelepipedo viola, una sorta di monolite dello spazio, su cui poggia una vera e propria scultura, prodotta da una fusione in acciaio, che riunisce lo scheletro di un cranio umano insieme con quello di un naso di daino, una forma ibrida di uomo-bestia, proveniente da un tempo indefinito e remoto.

Scarti di una civiltà che si è esaurita in se stessa, così Montale definiva  i personaggi di Svevo, come prima grande rappresentazione letteraria della condizione infelice e impotente dell’uomo contemporaneo. Rottami era il titolo a cui aveva pensato per la sua prima grande opera poetica, che venne poi eternata nell’immagine degli Ossi di seppia, “ossi di seppia che l’onda lascia sulla spiaggia, disidratati, prosciugati, di sangue e di linfa”(Giuseppe Petronio).

Così, da una esperienza puramente estetica siamo direttamente proiettati in una dimensione di riflessione, che non ha bisogno di particolari effetti speciali, che non ricorre ai mille possibili artifici del virtuale, ma gioca “drammaticamente” con gli oggetti del nostro più prossimo passato, reperti fossili di una civiltà che si è andata esaurendo. Che cosa ha reso possibile tutto ciò? Come l’uomo ha potuto trasformarsi in una sorta di ibrido animalesco dagli imprecisi contorni?

Gli “scarti” di Montorsi, i suoi “ossi di seppia”, è ora del tutto evidente, parlano della nostra condizione e, forse più di tante parole, ci aiutano ad una interrogazione proprio sul lavoro, quasi nostalgicamente richiamato nelle immagini degli strumenti antichi ridotti a frammenti insignificanti. Può esserci nel lavoro una speranza di umanità nuova? Il monolite sembra prospettare una risposta negativa, esibendo una scultura inquietante. Ma si tratta di una risposta o di un ammonimento?

Ai critici la parola sulla validità artistica di una simile operazione.
In questa sede, da parte di un semplice inesperto appassionato, invece una inevitabile osservazione su quanto si sta discutendo in questi giorni intorno all’arte contemporanea, alla sua presunta arbitrarietà, alla sua spesso fin troppo esibita superficialità, alla estrema logica di mercato che ne offusca non di rado ricchezza e potenzialità.
Le strade della ricerca artistica, nelle sue forme più varie e più libere, quando sanno  originalmente coniugare la sensibilità estetica e la dimensione critica, come nel caso di quest’ultima opera di Montorsi, possono aiutarci ad “abitare il nostro tempo”, consentendoci così di restare sull’ allarme.